La prima reazione di Romano Prodi, ex presidente del Consiglio e politico di lungo corso a livello
internazionale, di fronte alla notizia del supporto logistico alle operazioni militari francesi e inglesi in Libia,
fu di sincero sbigottimento.
Era il 2011 e, sulla scorta delle primavere arabe, il regime di Gheddafi vacillava sull’onda delle proteste e di
una rivolta che sconvolgeva quella che in Italia veniva chiamata, non a caso, la “Quarta Sponda” del
mediterraneo
Perché la Libia, da sempre, era un’alleata dell’Italia.
Non erano sempre state relazioni idilliache, certo. Ex provincia dell’impero ottomano, divenne una delle
prime colonie italiane, dopo la conquista parziale nel 1911, e il successivo ampliamento con la concessione
da parte di Francia e Gran Bretagna della Cirenaica. Con la sconfitta della Seconda guerra mondiale e la
perdita delle sue colonie, la Libia venne amministrata dalla Gran Bretagna e dalla Francia.
l’Italia continuò però a coltivare un rapporto privilegiato con Tripoli, fino a quando nel 1951 il paese non
divenne indipendente con il nome di Regno Unito di Libia.
Ma, appunto, non era sempre stato un idillio e le antiche ruggini emergevano a volte nelle relazioni
internazionali. Del resto, l’Italia, al di là dello stereotipo di “italiani brava gente” era stata estremamente
dura nella repressione delle ribellioni che avevano attraversato il paese soprattutto negli anni 20 e 30, fino
all’impiccagione del capo dei rivoltosi Senussi, Omar al Mukhtar.
Per cui se da un lato l’Italia aveva lasciato un buon ricordo e una lunga storia di cooperazione in
Tripolitania, in Cirenaica e nel Fezzan il clima era completamente diverso. E anche il re, Omar al Senussi,
non era certo favorevole a Roma.
Nonostante ciò, grazie alla politica lungimirante di Enrico Mattei, vennero chiusi accordi molto favorevoli in
campo energetico. Quella che all’epoca della colonizzazione veniva chiamata uno “scatolone di sabbia”, si
era trasformata in un Eldorado di petrolio e gas.
Mattei, amministratore delegato dell’Eni, l’Ente Nazionale Idrocarburi, la compagnia petrolifera italiana, era
riuscito, grazie alle intese col governo libico, a emancipare l’Italia dalla dipendenza energetica nei confronti
delle cosiddette “Sette Sorelle”. Ma avrebbe pagato caro la sua scelta, morendo in un misterioso incidente
aereo pochi anni dopo. I sospetti sui mandanti – CIA o M-I6 – non sono mai stati allontanati del tutto.
Gli accordi però reggevano. E l’Italia riusciva a mantenere buoni rapporti con la Libia, anche se le tensioni
con al Senussi non erano mai state sciolte del tutto.
È il 1969 che il giovane colonnello Muhammar Gheddafi, nasseriano, sale al potere spodestando il sovrano.
Anche qui, i sospetti di una “manina” italiana non sono mai stati dissolti, soprattutto perché quello che
sarebbe divenuto il leader indiscusso della Libia era stato addestrato proprio in Italia, tra il 1964 e il 1967,
nella scuola di guerra a Civitavecchia e poi a Bracciano, vicino Roma.
E d’altro canto sembra che al Senussi stesse “flirtando” con i vecchi alleati, Francia e Gran Bretagna, per
altre concessioni e marginalizzare l’Italia
Quel che è certo è che Gheddafi alimentò una retorica di indipendenza e di contrapposizione con l’Italia,
con azioni clamorose come il lancio di missili verso l’isola italiana di Lampedusa, e l’invio di Mig sul cielo
italiano, probabile causa dell’erroneo abbattimento di un aereo di linea della ITAVIA a Ustica, nel 1980.
Però è anche vero che nei fatti si rivelò un alleato leale, divenendo azionista della FIAT nel periodo in cui la
più importante industria automobilistica italiana versava in una crisi profonda. Era il 1976.
E l’Italia ricambiò il favore, impedendo a Reagan di portare a termine un attacco per uccidere lo stesso
Gheddafi. Pare che fosse stato lo stesso capo del governo italiano di allora. Bettino Craxi, ad avvisare
personalmente il colonnello.
Le concessioni petrolifere italiane, tutte concentrate nel ricco Golfo della Sirte, erano certamente le migliori
rispetto a quelle pur ricche, ma difficili da gestire, del Fezzan.
Prima del suo collasso la Libia era il principale fornitore di energia dell’Italia.
E il legame cordiale che univa i due paesi fu sancito dal viaggio di Gheddafi in Europa, nel 2009, con prima
tappa in Italia, ricevuto con tutti gli onori da Silvio Berlusconi all’aeroporto di Ciampino. Un viaggio di
riabilitazione internazionale, con Hillary Clinton che gli stringeva la mano, sostenendo che quella era la
dimostrazione che “non esistono nemici eterni degli Stati Uniti”,
Tutto bene, quindi.
No. Perché nel 2011 iniziavano le primavere arabe, Obama teneva il celebre discorso del Cairo e l’Occidente
si invaghiva di un sogno che si sarebbe presto trasformato in un incubo. Francia e Gran Bretagna sposarono
la causa delle proteste in Libia e riuscirono a trascinare gli Usa (che però rimasero appartati dietro un
sostegno esclusivamente logistico) e, appunto, incomprensibilmente, l’Italia.
Solo gli storici sapranno rispondere a questa domanda: perché Roma decise di schierarsi a fianco a quelli
che, da sempre, erano i suoi più acerrimi nemici in quel territorio: la Gran Bretagna, e soprattutto la
Francia, che da sempre cercavano di controllare i ricchi campi petroliferi che erano stati una quasi esclusiva
italiana.
Non a caso, il caos libico attuale, che vede la contrapposizione tra Tripolitania e Cirenaica, ha visto proprio
Parigi schierarsi al fianco dei ribelli guidati da Khalifa Aftar, e solo l’ingresso delle Turchia a fianco di Tripoli
ha impedito la caduta del paese nelle mani dei rivoltosi.
Rivoltosi che avevano l’appoggio non solo della Francia, ma anche della Russia e del Qatar, non
esattamente alleati dell’Occidente.
L’Italia, però, ha mantenuto i suoi rapporti con la Libia, almeno quella riconosciuta a livello internazionale, e
che si può identificare con la Tripolitania, e ha tentato più volte un dialogo anche con la Cirenaica di Haftar.
Alla base dell’interesse di Roma, la gestione del flusso di migranti che proprio dalla “Quarta Sponda” si
riversavano sulle coste italiane grazie alla vicinanza con la Sicilia e l’Isola di Lampedusa. Già in passato
Gheddafi aveva svolto la funzione di “barriera” all’esodo proveniente dal Sahel e dagli altri paesi collocati
lungo il cosiddetto “southern path” ma, con il collasso del paese, e con la gestione criminale delle rotte dei
migranti, la situazione era diventata drammatica.
È certamente il 2011 – non a caso quello della rivolta libica – l’anno di svolta delle migrazioni e, da cifre
contenute – circa 4.400 sbarchi nel 2010 – si passa a quasi 63mila. Il 2013 è l’anno della tragedia di
Lampedusa, dove morirono 368 persone, ma è il 2014 che si raggiunge la cifra “monstre” di 170.100.
È stato per questi motivi che, seppure con una situazione sul campo oggettivamente complessa e ben
lontana dalla stabilizzazione che Roma, con il governo Gentiloni di centrosinistra, il 2 febbraio del 2017,
siglava il “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto
all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando, e sul rafforzamento delle frontiere tra
lo Stato della Libia e lo Stato Italiano”.
In poche parole, l’Italia delegava a Tripoli il compito di sigillare le frontiere e impedire la partenza dalle sue
coste dei migranti. Veniva finanziata, con 13 milioni di euro l’anno, la “Guardia Costiera Libica”, che in
realtà non esiste, ma che aveva il compito di bloccare i barconi.
Intanto si aprivano i centri di detenzione denunciati a più riprese da Amnesty International per le brutali
violazioni dei diritti umani. Ad oggi, sono state “rispedite al mittente”, cioè in Libia, 82mila persone: donne,
bambini, uomini costretti a detenzioni arbitrarie e una serie indescrivibile di abusi, torture, stupri e violenze
indiscriminate.
L’accordo – che si rinnova automaticamente ogni tre anni – è tutt’ora valido, nonostante gli appelli di tutte
le ONG impegnate sul campo.
Non sempre la Libia ha rispettato il Memorandum: a capriccio e come strumento di pressione ha aperto i
cordoni e permesso il deflusso di migliaia di migranti, molti dei quali hanno perso la vita nel corso di
traversate spaventose.
Questo non ha impedito però che Roma continuasse a dialogare con Tripoli. Numerose le visite dei
rappresentanti libici in Italia e altrettanto numerose, e di alto livello, quelle italiane. Basti ricordare Mario
Draghi, che il 6 aprile del 2021 compiva la sua prima visita all’estero da presidente del Consiglio proprio a
Tripoli. E così anche Giorgia Meloni, anche lei fresca di nomina, che il 28 gennaio del 2023 si recava in Libia.
I resoconti diplomatici degli incontri sono sempre all’impronta della cordialità e dell’antico legame che
unisce le due sponde del Mediterraneo. Nella realtà, si tratta di un’amicizia in cui l’Italia non ha più la
posizione dominante, e dove i ruoli sono invertiti: se prima era Roma a dettare le condizioni, ora Tripoli ha
due leve formidabili per fare pressione: l’energia e i migranti.
Forse tutto questo era inevitabile, dato il mutare repentino e brutale degli equilibri internazionali, però è
vero che l’Italia ha perso molto in fretta la sua influenza su un paese che aveva avuto al suo fianco per 100
anni.
Quindi la risposta alla domanda inziale di Romano Prodi è: forse non siamo pazzi. Però, non siamo neanche
troppo intelligenti.
Gianluca Ales is a writer and a journalist at Sky TG24 with a special focus on the Middle East and North Africa, foreign affairs and has an extensive experience as a war correspondent